Annibale, Trasimeno e Porsenna:
tre personaggi che si raccontano

Riprendendo la Storia di questi tre importanti personaggi che hanno avuto una forte influenza all’interno del territorio del Lago Trasimeno, abbiamo voluto “far raccontare” da loro stessi la loro esperienza nel territorio.

ANNIBALE

Avevo quasi nove anni quando lasciai casa mia, Cartagine. Una casa che per quanto nel corso del tempo la mia memoria ricordasse sbiadita, non ho mai tradito, ma che anzi ho protetto e per cui ho condotto numerose battaglie contro il suo più grande nemico: Roma.

 

Avevo quasi nove anni quando la mia vita cambiò drasticamente: mio padre Amilcare, uno dei migliori condottieri che l’esercito di Cartagine avesse mai avuto, mi chiamo a sé. “Annibale” mi disse “ da oggi tu verrai con me, mi seguirai nelle mie battaglie per conto della nostra città ed un giorno prenderai il mio posto. Ma prima devi giurarmi una cosa, devi giurarmi che anche tu, quando verrà il momento, farai di tutto per distruggere Roma”.

 

Ovviamente accettai e da quel momento la mia vita cambiò per sempre. Non avevo ancora ben chiaro cosa volesse dire crescere fra la polvere degli accampamenti, le bestemmie dei soldati, le marce, le battaglie, le veglie di notte sotto le stelle, le sentinelle ai confini dell’impero. Ma quello che avevo ben chiaro era quanto impegnativo fosse essere l’erede di Amilcare, il grande generale di Cartagine, soprannominato Barak, il Fulmine. Dopo la morte di mio padre fu Asdrubale a prendersi cura di me, ma anch’egli morì. 17 anni erano passati da quando avevo lasciato Cartagine, ma a 26 anni era giunto il momento di guidarne le sue truppe.

 

Mi dicevano che da mio padre avevo ereditato lo sguardo fiero, la mente pronta e l’eloquio tagliente. Ma sentivo che avevo qualcosa in più di mio padre, un lato riflessivo, una mente analitica, fredda, pianificatrice con il coraggio di seguire intuizioni folli. La genialità, in fondo, è saper organizzare razionalmente la propria pazzia. Follia, come quella che mi portò, dopo aver sottomesso l’Iberia e Sagunto, a marciare su Roma attraversando le Alpi con gli Elefanti. Non mi importava se questo volesse dire perdere molti dei miei soldati fintanto che questa impresa contribuiva ad accrescere la mia fama e di conseguenza la paura dei Romani nei miei confronti. Ai loro occhi forse ero visto come un Dio: non più un ragazzetto cresciuto sotto l’ombra del padre, ma un uomo che aveva sconfitto la natura.

 

Una volta arrivato in Italia vinsi due battaglie in rapida successione quella del Ticino e poi quella del Trebbia. I Romani erano confusi e basiti, ben lontani dalla loro fama di abili conquistatori e maestri nell’arte della guerra. Erano completamente impreparati dal fatto che avessero il nemico in casa, un nemico capace di batterli sul campo ripetutamente.

 

Sul Trasimeno, in particolare ricordo che rischiai tantissimo. Se gli eserciti romani si fossero ricongiunti prima, non sarei sicuramente passato alla storia come l’uccisore di romani. Invece seppi trarre vantaggio dalla nebbia che circondava le sue sponde. Nascosi le mie truppe in una gola, presso quella cittadina che oggi viene chiamata Tuoro, ed ingaggiai uno scontro con i romani che marciavano in fila indiana lungo il Trasimeno schiacciandoli verso le sue rive. Per loro fu una disfatta, trovarono la morte circa 15000 romani; altrettanti li feci prigionieri. Per Roma sembrava essere imminente la fine pensai.

 

Da qui però la fortuna cominciò a voltarmi le spalle o forse volli osare troppo. Volevo infatti far crollare Roma su se stessa fomentando rivolte in gran parte del suo territorio per poi avere via libera per lo scontro finale. Ma questa non fu una strategia vincente, nonostante la vittoria a Canne in Puglia. Roma era alla mia portata di mano ma non riuscii ad impadronirmene mai.

 

Il mio istinto di condottiero interpretava benissimo i segnali del destino: sentivo infatti il potere e la fortuna che mi scivolavano dalle mani come granelli di sabbia. Giovani talenti romani della guerra, come Scipione, crescevano come piccoli leoni, mentre io avvertivo ormai il peso degli anni e dei rimorsi per coloro che, per seguirmi, avevano perduto la vita. Una lenta agonia mi impose il fato: rimasi accerchiato, isolato, senza reali contatti con la mia madrepatria. Tuttavia non mi arresi: combattei, ribattei colpo su colpo. Straniero e solo, non venni sconfitto né tradito,

 

Fu a Zama la grande sconfitta che decretò l’inizio della mia fine. La mia prima sconfitta dopo 20 anni ad opera di Scipione che per questo passò alla storia come L’Africano.

Non accettai mai di consegnarmi prigioniero. Quando vennero ad arrestarmi bevvi, veloce, il veleno che da sempre conservavo nel castone del mio anello. E così morii, libero e trionfante sui nemici, come ero sempre vissuto.

 

Mentre morivo, accasciandomi a terra, provavo una sensazione di pace e tranquillità che tuttavia già conoscevo.

 

Era la stessa che avevo provato la sera prima della battaglia del Trasimeno, quando mi ero fermato un attimo a lavarmi la faccia nelle sue piatte acque che riflettevano il tramonto.

 

In quel momento mi era sembrata una visione paradisiaca; solo adesso capivo che in realtà era il paradiso stesso.

TRASIMENO

Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Il giorno più bello della mia vita, senza ombra di dubbio. Mi trovavo sulle sponde di un lago il cui perimetro, se visto dall’alto ricorda le forme di un cuore. Era un lago situato in quello che oggi viene definito centro Italia, ancora scarsamente abitato anche se alcuni temerari avevano deciso di stanziarsi sulle sue sponde.

Mi recavo spesso in quella zona che su di me aveva un effetto calmante, specie quando discutevo mio padre, il dio Tirreno. Trovavo rilassante fare delle lunghe passeggiate a cavallo e a piedi lungo le sue sponde, sulle quali crescevano rigogliose le canne che ondeggiavano nel vento. Lo so, un passatempo un po’ strano per un Principe. Mi piaceva anche restarmene seduto in cima al promontorio calcareo che oggi prende il nome di Castiglione del lago, ad osservare il sole sorgere dietro le colline di fronte illuminano piano piano tutto lo specchio d’acqua con le sue tre isole.

 

Dicevo, ricordo ancora quel giorno come se fosse ieri. Cavalcando lungo le rive del lago, ad un certo punto vidi un fagiano attraversarmi la strada. Con me avevo arco e frecce e così decisi di dargli la caccia. D’altronde presto sarebbe tramontato il sole e non avevo nulla da mangiare con me. Tesi l’arco e scoccai una prima freccia, ma il volatile, quasi conscio del pericolo, si spostò un attimo prima che la freccia lo colpisse. Spiccò il volo per atterrare poco più in là, protetto dalle canne che mi oscuravano la visuale. Scesi così da cavallo e deciso ad inseguirlo imboccai un viottolo che sembrava andare nella direzione in cui era volato il fagiano.

 

Percorsi alcuni metri quando mi sembrò di sentire una voce celestiale cantare. “Impossibile” pensai, “in questa zona non dovrebbe esserci nessuno”. Quindi, noncurante, proseguii. Più proseguivo però, più il canto si sentiva più forte. Ad un certo punto il sentiero diradava aprendosi in una piccola insenatura dove c’era una barca ormeggiata. L’insenatura era proprio di fronte ad un isola dove in lontananza intravidi una figura femminile. Sembrava proprio che il vento portasse la sua voce fin da me. Allora, incuriosito, lasciai perdere il mio intento di caccia, tornai indietro a legare il cavallo,  e mi imbarcai alla volta dell’isola in cerca di quella fanciulla che aveva attirato la mia attenzione. Chissà, magari con un po’ di fortuna mi avrebbe offerto del cibo.

 

Si era fatta sera quando arrivai sulle sponde dell’isola. Lei mi attendeva li, dove l’avevo vista da terra, e cantava ancora. Scesi dalla barca e mi avvicinai estasiato, ma con calma senza far rumore. Non volevo disturbare quello spettacolo. “Ciao” dissi ad un certo punto, rompendo gli indugi. La ragazza sobbalzò, evidentemente non si era accorta della mia presenza. “Ciao” ripetei, e lei finalmente si girò verso di me. Era bellissima. I suoi capelli erano mossi, di un colore molto vicino rosso rame, risaltavano a contrasto con la sua pelle morbida e chiara. I suoi occhi erano di un verde intenso che non avevo mai visto e la sua bocca si apriva delicata in un sorriso. “Salve” mi rispose.

D’improvviso, la fame che avevo sparì, il mio stomaco era in subbuglio, sembrava avessi mille farfalle dentro. Bastò questo a farmi innamorare perdutamente di lei mentre cercavo di trovare le parole per parlarci.

 

La fanciulla in questione si chiamava Agilla e non era propriamente una ragazza, bensì una ninfa come mi disse subito. Viveva nel grosso palazzo che si trovava nell’isola da quando era nata. Difficilmente andava nella terraferma e perlopiù aveva a che fare con i pescatori che di tanto in tanto approdavano sull’isola, anche se, mi disse subito con un gran sorriso, io sembravo diverso da loro. A quel punto però i morsi della fame tornarono a farsi sentire e così le chiesi se avesse qualcosa da offrirmi da mangiare. Rispose di sì accompagnandomi all’interno della sua dimora offrendomi del pane. Lo divorai subito quando lei si avvicinò e si mise a sedere sulla panca accanto a me. Ci guardammo negli occhi per un momento che a me parve un’eternità, poi trovai il coraggio e la baciai.

 

Fu subito amore. Non ricordo per quanti giorni rimasi con lei, ma sicuramente per un bel po’ di tempo, tanto da costringere mio padre a venirmi a cercare. Si arrabbiò moltissimo scoprendo che in realtà ero sano e salvo senza avergli fatto sapere nulla da giorni. Forse, il dio Tirreno, in fondo in fondo, era anche un po’ invidioso della bellezza della mia compagnia. Ma tanto che era arrivato da me, colsi la palla al balzo e gli dissi subito come la pensavo.

 

“Voglio sposarla!” mio padre mi guardò un attimo basito, come sorpreso da questa mia dichiarazione. Poi abbassò il capo sconsolato e mi disse: “Capisco”. Fu così che alcuni giorni dopo ci sposammo. Ero veramente al settimo cielo, tanto che subito dopo il matrimonio volli fare il bagno nel lago per festeggiare. Ahimè non sapevo quale infamia il fato mi riservasse.

 

Quel bagno infatti mi costò caro. Non ricordo bene come andò, ricordo solo che che mi tuffai dal piccolo pontile che sorgeva sulla spiaggia dell’isola, proprio di fronte dove oggi si trova il castello, e poi più niente. Probabilmente scivolai poco prima del tuffo e sbattei la testa violentemente prima di cadere nel lago, quindi affogai.

 

La povera Agilla non vedendomi tornare prese a disperarsi, ed a correre da una parte all’altra dell’isola dapprima, del lago poi alla mi disperata ricerca. A bordo della barca con la quale ero arrivato nell’isola fermava tutti i pescatori che solcavano le sue acque nella mia affannosa ricerca. Spesso, presa dalla sua missione, non si ricordava nemmeno di mangiare. Il suo bellissimo viso era ora costantemente solcato da lacrime amare di disperazione. Ma io non potevo farci niente. Non potei nemmeno fare niente quando la vidi, dal luogo in cui sono adesso, piangere stremata nell’imbarcazione in mezzo al lago, distendersi sul fondo dell’imbarcazione. Fissava il cielo e piangeva, forse si era rassegnata alla mia morte. Fissava le stelle ed urlava di dolore fino a quando, stremata ed oramai rassegnata, la vidi fare un respiro profondo e poi più niente.

 

Oggi, a distanza di tanto tempo, la ricerca disperata da parte di Agilla del mio corpo, mi dona l’unica consolazione che ho potuto ricevere da questa storia. A forza di percorrere il lago in lungo e in largo urlando il mio nome, gli abitanti del posto hanno chiamato quel bacino d’acqua a forma di cuore

PORSENNA

Porsenna Birra - Red

Quel giorno mi trovavo lungo le rive del Trasimeno. Era estate e mi ero recato là per sfuggire, almeno per un po’, alla calura ma soprattutto ai miei doveri di lucumone. Un termine che oggi può essere tradotto con quello di Re. Ero infatti il lucumone della città che i greci chiamavano Clusium, quella che oggi è conosciuta come Chiusi. Da poco ero anche stato nominato anche capo della dodecapoli Etrusca dell’odierna Toscana; come se non bastasse il fatto che il mio regno comprendesse un territorio ben più ampio di quello di Chiusi: dai monti Cimini ed il lago di Bolsena, ad Arezzo, dal Monte Amiata al Trasimeno. Avevo dunque bisogno di meditare e di capire bene quali sarebbero state le mie prossime mosse. Ero immerso nei miei pensieri, seduto su di uno scoglio sotto al promontorio che oggi prende il nome di Castiglione del Lago a fissare il sole riflettersi sull’acqua.

 

Dovevo capire bene come comportarmi con la città di Roma che da poco aveva spodestato il suo sovrano, Tarquinio il Superbo, il quale proveniva da una città mia alleata. A dire il vero non nutrivo grosse simpatie per lui ma sapevo che Roma era uno snodo cruciale per potermi collegare con le nostre colonie a sud di essa. Ad un certo punto un soldato della mia scorta mi venne a chiamare: “ Lars Porsenna, signore di Chiusi, mio re!” Mi girai, disturbato dal fatto che quest’uomo avesse osato interrompere il corso dei miei pensieri. “Ho un messaggio importante per lei, c’è una persona che chiede udienza!” continuò il soldato.

“Che seccatura” pensai, “Chi osa disturbare il corso dei miei pensieri?” Tuttavia questa persona non rappresentò affatto una seccatura, anzi mi offrì l’occasione che mi avrebbe consegnato alla leggenda, facendo sì che il mio nome risuonasse nell’eternità.

 

La persona in questione era infatti Tarquinio, l’ex sovrano di Roma, detto il Superbo per i suoi modi poco gentili e per il suo carattere imperioso, anche troppo, di trattare le persone intorno a lui. Mi immaginavo dunque come avesse trattato i suoi poveri sudditi di Roma. Tarquinio il Superbo, in persona che, prostrandosi era venuto a chiedermi aiuto per rientrare a Roma. In quel momento capii che il fato aveva voluto donarmi un’occasione più unica che rara e non esitai a coglierla. Decisi così di muovere guerra contro Roma apprestandomi a compiere quella che divenne l’impresa che mi consegnò all’immortalità della leggenda dal momento che, dopo di me, dovettero passare quasi 1000 anni prima che qualcun altro riuscì a conquistarla.

 

Il mio esercito riuscì da subito a conquistare il Gianicolo, spingendo i Romani verso il Tevere, in modo che potessi circondare la città. I romani però riuscirono ad attraversare il ponte che attraversava il Tevere in quel punto appena in tempo, oltre che a demolirlo prima del nostro passaggio. In questo modo il fiume era diventato un ostacolo fra i nostri eserciti. Non mi aspettavo di certo la comparsa di un eroe che poi venni a sapere rispondere al nome di Orazio Coclito. Costui da solo riuscì a tenere a bada il mio esercito impedendogli di attraversare il ponte mentre i romani lo demolivano. Questa impresa mi impressionò non poco. Già allora avevo forse inconsciamente intravisto quella che sarebbe stata la grandezza di Roma nei secoli successivi. Una grandezza che risiedeva nel cuore dei suoi abitanti, che in qualche modo andava preservata. Un coraggio che ritrovai anche in Muzio Scevola, la spia romana che tentò di rompere l’assedio alla sua città cercando di assassinarmi. Per fortuna non ci riuscì, uccidendo un mio sottoposto anziché me. Per aver sbagliato bersaglio, il povero Muzio, si ustionò da solo il braccio destro, quello con cui aveva ucciso il bersaglio sbagliato, per il disonore. Senza dubbio anche questo fu un gesto impressionante e valoroso che mi colpì nel profondo, sbalordendomi.

 

A quel punto decisi di cercare un accordo con i romani. Un accordo che sapevo doveva essere vantaggioso per me, ma doveva essere rispettoso della natura eroica degli atti romani e delle loro dimostrazioni di coraggio. Alla fine l’accordo fu il seguente: noi rinunciavamo a porre sul trono di nuovo Tarquinio il Superbo, ma loro avrebbero dovuto restituirci i territori occupati in precedenza e consegnarci giovani ostaggi. Mi furono anche offerti dal Senato di Roma la sedia d’avorio e lo scettro, i simboli del comando per eccellenza. Fu anche innalzata una statua in mio onore vicino al Senato. Tutto questo nonostante pretesi anche che non usassero più il ferro, se non in agricoltura costringendoli così all’impossibilità di armarsi.

 

Dopo aver regnato su Roma alcuni anni, sentendo che la mia missione era giunta al termine, me ne tornai alla mia Chiusi. Mi mancavano la pace e la tranquillità del lago Trasimeno, le lunghe camminate che facevo lungo le sue sponde, vedere il sole sbucare dalle colline ed illuminare tutto lo specchio d’acqua. Più che altro però sentivo l’avvicinarsi della mia ora ma non volevo arrendermi.

 

Volli quindi regalarmi una sepoltura degna solo dei più grandi conquistatori. Radunai i i migliori orafi del territorio e feci trasformare l’oro raccolto durante le mie campagne militari in una carrozza, una chioccia e cinquemila pulcini. Questi rappresentavano le famiglie che mi avevano aiutato nell’impresa di Roma e che avrebbero dovuto idealmente accompagnarmi nell’aldilà. Il tutto fu interrato i piedi di una grande struttura quadrata sulla cui sommità sorgevano 5 piramidi, 4 agli angoli ed una al centro. Una struttura che solo in pochi hanno avuto il privilegio di vedere dal momento che per voi risulta un mistero, tanto che oggi dubitate anche della sua esistenza.

 

Meglio così d’altronde. Se non altro da lì ho potuto assistere in santa pace al sorgere dell’ Impero romano, che in qualche modo avevo previsto, ma soprattutto perché da lì posso ammirare indisturbato ancora oggi quello che fu mio territorio caratterizzato dalla splendida cornice blu del lago Trasimeno che tanto mi piaceva frequentare quando ero ancora in vita.